Vi stato un periodo in cui Panzini e BelIaria Igea Marina erano sinonimi.
Un periodo cioè in cui la nostra località era ignota a pressoché tutti i primi vacanzieri eccetto appunto il Panzini. Esclusa dalle cartine geografiche per ovvie ragioni, non costituendo comune autonomo, la località dormiva ancora il sonno secolare nella quale la storia l’aveva confinata.
Decadute la grande signoria dei Malatesta che l’aveva onorata addirittura con la presenza di un “castrum”, divenuta per tutta l’età moderna teatro di scorribande piratesche causa una costa indifendibile dal punto di vista militare, liquidato Napoleone della cui dominazione la vicina Rimini serberà non pochi segni, la località con tutta la Romagna fino a Ferrara erano cadute sotto la tutela dello Stato della Chiesa.
Malgoverno, assenteismo nella gestione dei fondi, scarsa propensione alla specializzazione delle colture avevano consegnato al nascente Regno Italico una terra povera e frustrata ove lo spettro della fame e la sperequazione sociale non di rado fomentavano la nascita di movimenti di contestazione e ribellione sociale.
Il Panzini, nativo di Senigallia ma di genitori romagnoli, forse per un ritorno alle origini o forse per distanziarsi dalla roboante modernità che in Milano aveva il suo centro, lasciava ogni anno la propria cattedra per trascorrere a Bellaria le vacanze estive.
40 enne, celibe e di statura corpulenta, già di carattere burbero e determinato ma ancora lontano dall’essere accademico d’Italia, idealmente apparteneva a fine Ottocento alla categoria dei “vacanzieri” ossia di quelle figure la cui collocazione socio-economica consentiva per diversi mesi all’anno di lasciare “vacante” il proprio lavoro per dedicarsi all’otium dei latini ossia a quelle occupazioni e speculazioni più tipiche dell’intellettuale che del professore.
Non erano pochi coloro che gi sul finire del XIX secolo nei mesi estivi o comunque in diversi momenti della propria vita lasciavano la residenza abituale per “viaggiare”. Potevano trattarsi allora di percorsi di formazione o di erudizione verso i centri del sapere europeo o in alternativa viaggi alla ricerca di ispirazione per intellettuali stanchi della mondanità.
Non di rado, infatti, artisti delle varie discipline svernavano in rade desolate o in luoghi impervi e inaccessibili, località battute dai forti venti o coperte dalle nevi eterne ove la natura era padrona incontrastata e la vita pericolosa.
Non era raro, infatti, a fronte al roboante umanesimo meccanico di fine secolo, alle nuove frontiere della scienza e della tecnica elevate a nuova religione e ad un progresso umano tumultuoso e conflittuale assistere a scelte di vita “alternative” nella direzione della natura e della solitudine.
La ciclicità della natura con il ritorno delle stagioni, il succedersi delle generazioni, il perpetuarsi delle tradizioni e dei riti della terra, l’essersi la storia quasi arrestata alla classicità romana da lui tanto idealizzata sono momenti per il professore di grande riflessione.
Bellaria con le sue dune salmastre, con il suo paesaggio primordiale e incontaminato, l’attaccamento alla vita dei nativi in un ambiente duro ed essenziale diventano specchio dell’esistenza umana. Le figure che vediamo muoversi nei suoi primi romanzi incarnano una intera umanità in lotta per la sopravvivenza in un ambiente naturale ostile che non consente sconti. Animali, persone e luoghi sono tutti inseriti in un processo di creazione-distruzione dal quale neppure volendo possono uscire né il progresso scientifico può migliorare l’esistenza *
Gli agnelli sgozzati la vigilia di Pasqua. Il maialetto allevato con cura poi venduto al peso, i nobili pini abbattuti per fare posto alla strada ferrata sono il tributo silenzioso che l’umanità paga per sopravvivere ad una natura leopardianamente crudele ed assente. Il progresso di cui si fa gran parlare altrove non arriva in questa remota spiaggia o se arriva, non è in grado di invertire tendenze e dinamiche proprie dell’umanità e della propria storia.
L’uomo caro a Panzini dunque non è colui che si ribella al proprio tempo ma colui che accetta le verità della storia con rassegnata consapevolezza e fiducia.
La verità per l’autore quindi è un tesoro prezioso custodito dagli umili ossia da quella Italia di provincia ai marginali del progresso e della retorica nazionale; il percorso ciclistico che egli compie per arrivare a Bellaria è al tempo stesso un viaggio alla ricerca delle radici e degli esempi virtuosi che costituiscono la vera ossatura dell’Italia postunitaria.
Vi stato un periodo in cui Panzini e BelIaria Igea Marina erano sinonimi.
Un periodo cioè in cui la nostra località era ignota a pressoché tutti i primi vacanzieri eccetto appunto il Panzini. Esclusa dalle cartine geografiche per ovvie ragioni, non costituendo comune autonomo, la località dormiva ancora il sonno secolare nella quale la storia l’aveva confinata.
Decadute la grande signoria dei Malatesta che l’aveva onorata addirittura con la presenza di un “castrum”, divenuta per tutta l’età moderna teatro di scorribande piratesche causa una costa indifendibile dal punto di vista militare, liquidato Napoleone della cui dominazione la vicina Rimini serberà non pochi segni, la località con tutta la Romagna fino a Ferrara erano cadute sotto la tutela dello Stato della Chiesa.
Malgoverno, assenteismo nella gestione dei fondi, scarsa propensione alla specializzazione delle colture avevano consegnato al nascente Regno Italico una terra povera e frustrata ove lo spettro della fame e la sperequazione sociale non di rado fomentavano la nascita di movimenti di contestazione e ribellione sociale.
Il Panzini, nativo di Senigallia ma di genitori romagnoli, forse per un ritorno alle origini o forse per distanziarsi dalla roboante modernità che in Milano aveva il suo centro, lasciava ogni anno la propria cattedra per trascorrere a Bellaria le vacanze estive.
40 enne, celibe e di statura corpulenta, già di carattere burbero e determinato ma ancora lontano dall’essere accademico d’Italia, idealmente apparteneva a fine Ottocento alla categoria dei “vacanzieri” ossia di quelle figure la cui collocazione socio-economica consentiva per diversi mesi all’anno di lasciare “vacante” il proprio lavoro per dedicarsi all’otium dei latini ossia a quelle occupazioni e speculazioni più tipiche dell’intellettuale che del professore.
Non erano pochi coloro che gi sul finire del XIX secolo nei mesi estivi o comunque in diversi momenti della propria vita lasciavano la residenza abituale per “viaggiare”. Potevano trattarsi allora di percorsi di formazione o di erudizione verso i centri del sapere europeo o in alternativa viaggi alla ricerca di ispirazione per intellettuali stanchi della mondanità.
Non di rado, infatti, artisti delle varie discipline svernavano in rade desolate o in luoghi impervi e inaccessibili, località battute dai forti venti o coperte dalle nevi eterne ove la natura era padrona incontrastata e la vita pericolosa.
Non era raro, infatti, a fronte al roboante umanesimo meccanico di fine secolo, alle nuove frontiere della scienza e della tecnica elevate a nuova religione e ad un progresso umano tumultuoso e conflittuale assistere a scelte di vita “alternative” nella direzione della natura e della solitudine.
La ciclicità della natura con il ritorno delle stagioni, il succedersi delle generazioni, il perpetuarsi delle tradizioni e dei riti della terra, l’essersi la storia quasi arrestata alla classicità romana da lui tanto idealizzata sono momenti per il professore di grande riflessione.
Bellaria con le sue dune salmastre, con il suo paesaggio primordiale e incontaminato, l’attaccamento alla vita dei nativi in un ambiente duro ed essenziale diventano specchio dell’esistenza umana. Le figure che vediamo muoversi nei suoi primi romanzi incarnano una intera umanità in lotta per la sopravvivenza in un ambiente naturale ostile che non consente sconti. Animali, persone e luoghi sono tutti inseriti in un processo di creazione-distruzione dal quale neppure volendo possono uscire né il progresso scientifico può migliorare l’esistenza *
Gli agnelli sgozzati la vigilia di Pasqua. Il maialetto allevato con cura poi venduto al peso, i nobili pini abbattuti per fare posto alla strada ferrata sono il tributo silenzioso che l’umanità paga per sopravvivere ad una natura leopardianamente crudele ed assente. Il progresso di cui si fa gran parlare altrove non arriva in questa remota spiaggia o se arriva, non è in grado di invertire tendenze e dinamiche proprie dell’umanità e della propria storia.
L’uomo caro a Panzini dunque non è colui che si ribella al proprio tempo ma colui che accetta le verità della storia con rassegnata consapevolezza e fiducia.
La verità per l’autore quindi è un tesoro prezioso custodito dagli umili ossia da quella Italia di provincia ai marginali del progresso e della retorica nazionale; il percorso ciclistico che egli compie per arrivare a Bellaria è al tempo stesso un viaggio alla ricerca delle radici e degli esempi virtuosi che costituiscono la vera ossatura dell’Italia postunitaria.
Cagnona.it Associazione culturale